A culovra [Il colombre]

C’era ‘na vota, questa storia potrebbe iniziare così, sì perché mio nonno non conosceva l’italiano, a mala pena lo capiva ma non lo amava e glielo dimostrava quando poteva, uccidendolo poco alla volta con i suoi neologismi improvvisati. Eppure non era ignorante perché nella sua lingua conosceva più cose di quante si possa vederne in un sogno; tutte avrebbero potuto cominciare così… c’era ‘na vota un ragazzo e un frammento di passato che chiamava nonno, c’eravamo io e la mia curiosità, le leggende popolari, le trovature, i luoghi proibiti. Ogni popolo ha i suoi, la memoria dei nostri luoghi ha sempre ignorato fate ed elfi, goblins e stregoni ma è popolata da spiriti immondi e mostri anch’essa. Non è mai stato un segreto, mi diceva mio nonno, che i morti potessero comunicare con noi attraverso porte invisibili; alcune addirittura si trovavano in persone dotate di capacità non comuni, non di rado le stesse in grado di togliere i vermi ad un ragazzino scavando solchi immaginari nel suo ventre con movimenti abili e quasi rituali. Un pomeriggio di non ricordo più che anno, un pomeriggio d’estate, questo sì, decise di passeggiare con me, attraverso la sua infanzia, di rivisitare il folto verde che nasconde l’Irminio, come la barba di un saggio con la sua bocca. Lì i miei avi domarono la potenza del fiume con la loro arte; il loro tempio, un mulino abbandonato, è ancora da qualche parte, a ricordare che in guerra i mugnai furono ricchi come mai avvenne in tempo di pace. Passeggiammo a lungo, mi fece vedere l’allevamento di trote, mi portò in una radura dove, da piccolo, pensava fossero atterrati gli uomini di Marte, mi condusse – attraverso fogliame e radici tortuose e rami tanto fitti da spaventare il sole – ad un luogo di fiaba, una sorta di incavo del fiume dove l’acqua riposava e gorgogliava allo stesso tempo, con rane, girini, gallinelle d’acqua e qualche biscia; lì, mi disse, s’accorse per la prima volta di quanto forte il suo cuore potesse percuotere il petto. Camminammo ancora, costeggiando la vallata e d’un tratto il suo volto s’adombrò, lentamente il suo passo rallentava e cominciò a tirare boccate, dalla sua sigaretta, via via più profonde. Non ero abituato a quel rito, era la mia cerimonia d’iniziazione alla paura, e così quel luogo, poco prima amichevole, mutò. Si accorse di me, del mio indagare, si nascose dietro un sorriso amaro; ritrovava in quel momento un nemico dimenticato tra foto ingiallite della memoria ed era disorientato, indeciso se temerlo, ignorarlo o affrontarlo. Solo dopo capii cosa stava succedendo, è un po’ come quando si rimandano alla fine tutti i dubbi esistenziali, poi arriva davvero, la morte bussa alla tua porta e non sai cosa fare, se credere in dio, limitarti a temerlo o affrontare la bruciante verità. Era forse questa la paura che lessi e seppi subito cosa aveva deciso di fare perché le sue sopracciglia diventarono tese come la linea dell’orizzonte, sotto gli occhi ogni piega sparì in un’immota e risoluta espressione, impercettibilmente capii che i suoi muscoli erano tesi e tutto si risolse in un movimento istintivo verso l’ignoto che avevamo davanti. Il sole era già finito dietro la collina portandosi dietro la sua coperta di calore, la luce del giorno ci avrebbe presto lasciati, senza accorgercene, per ceder posto alla rotonda freschezza della luna nuova. Camminammo parecchio, non so bene per trovare cosa e non credo nemmeno lui avesse un’idea precisa della nostra meta, pensai che volesse semplicemente esplorare quei luoghi, pensai tante cose durante quei lunghi minuti di silenzio ma si spezzarono d’improvviso tra le sue parole “‘stu turrinu ni piacia taliallu i luntanu, ri da ssupra abbota e casi, quannu c’era a luna cina, ppi virriri se ppi ddaveru a virieumu… ma nun si viria mai nenti e u stissu nudu sa sintia ri trasiri rintra stu uoscu. Si ricia ca cca ci forra nu scursuni i ciumi, ca coccarunu avia trasutu e nun avia turnatu…” a quel punto si interruppe, gli occhi si sgranarono e dietro di me lo scroscio dell’acqua sembrava coprire il movimento di qualcosa di inimmaginabile. Una parola, uscì, biscicando, dalle sue labbra quasi immobili “a culovra…”. Mi voltai lentamente, un enorme serpente ci osservava nel buio, le scaglie luccicavano dell’argento lunare, l’acqua gli scorreva addosso sinuosa e leggera, dalla bocca si vedeva appena guizzare la punta di una lingua. Restammo pietrificati, in silenzio mentre il mostro sembrava rimirarsi nei nostri occhi, nel nostro terrore, mentre mille pensieri affollavano la mente ma nessuno si prendeva la responsabilità di comandare un movimento.

Socchiusi gli occhi un attimo, li riaprii e non c’era più. Mio nonno, non c’era più, la culovra non c’era più, solo io ero reale, forse.

Lo avevo accompagnato lungo quest’ultimo viaggio o forse lui aveva accompagnato me attraverso le sue paure; quelle che vidi durante tutta la sua vita, le stesse che non vidi più prima che se ne andasse.

E’ morto un anno fa mentre lei, la culovra, non so se sia mai esistita. Sono entrambi personaggi di fantasia in un modo diverso, sono il marchio distintivo dell’uomo e della sua mortalità, il quadro delle sue paure trasposte nelle leggende e nella fantasia ma in definitiva occhieggianti dal più banale degli specchi.

 

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A culovra [Il colombre]ultima modifica: 2011-09-14T20:10:00+02:00da cat_stevens
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