2: Elisa?

Elisa… Elisa… Quel nome risvegliò i miei sensi prima del cicaleccio della sveglia elettronica. Mi chiedevo cosa c’entrasse un aborto con un promemoria, cosa avesse portato l’uomo a una condizione di alienazione tale da distrarsi con l’alcol per poi rimanere in confusione. Tutto era sconnesso, maledizione! E in quel coacervo di analogie mancate che erano i miei pensieri non poteva mancare, ti ti ti ti ti ti, il promemoria! Ero inquieto. Lessi “ascoltare messaggeria telefonica”. Che significava? Non ricordavo neanche stavolta di aver messo quelle parole tra i compiti del giorno. Click. “Dovrebbero essere le otto, adesso. Ti sei svegliato ora, e se ti stessi chiedendo come lo so ti rispondo che ti ho svegliato io” la voce che parlava era un’estroflessione del buio notturno, un arto che cercava di ghermire il mio terrore e la mia devozione , era artefatta, decisa ma ad un tempo grossolanamente tagliente come un coltello affilato male “stavolta non potevo scrivere tutto in un promemoria. Ascoltami bene. Elisa non esiste, colei che hai ucciso abitava in via Adamelli e meritava la morte” un pianto, era come se un pianto di brividi mi percorresse la schiena a ritroso, partendo dal basso per finire dietro la cervice sudata “non importa adesso. Ora ho deciso di uscire, ho studiato e lavorato per anni e adesso finisco l’opera, tu mi aiuterai.” Click.

Non mi ero accorto, non lo si fa mai, di com’ero passato al cardiopalma, la cassa toracica era percossa da colpi sordi la cui forza fino a quel momento non avevo mai sentito tanto imperante. Ero troppo confuso per decidere cosa fare. Potevo chiamare la polizia, un’ambulanza, Leo… ma infine restai solo pietrificato, immobilizzato sotto il grave peso del mio sudore gelido. Quella voce, c’era qualcosa che mi suggeriva di non indagare, di stare zitto e aspettare, c’era un terribile segreto dietro quelle parole e il modo in cui erano state pronunciate e non sapevo dare un nome al mio orrore. Non sono un fervente cattolico ma quella domenica stavo pensando che… il telefono! Stava squillando il telefono. Risposi restando sospeso per un attimo e parlò una voce gutturale e catarrosa “bestia, ti sei svegliato anche tu presto? Non ho chiuso occhio, dannato alcol! E sai che quando mi sveglio non riesco a riprendere sonno. Andiamo a prendere un caffè?”

Leo, mi distolse per un attimo dalla matassa di pensieri per riportarmi a una realtà più semplice. Come semplice è fare la considerazione che mio padre al tempo abbia sbrigato tutte le formalità del caso registrandomi regolarmente all’anagrafe sotto il nome di Marco Rosa, dove Rosa era, suo malgrado, il cognome; per cui non si capisce perché Leo non potesse rendere omaggio a quel brav’uomo tanto ligio ai doveri burocratici. Restai sospeso al telefono ancora indeciso sul tono di voce da assumere, da dissimulare o palesare, Leo non si accorse di nulla, della leggera inflessione della voce quando gli risposi “ok, passo io mi secca accendere il PC per tirare la moneta”. Leo non capiva, perché sembrava avesse ingerito un silos di metadone, io perché sembrava che il silos me l’avessero tirato su per il colon. La presenza del mio amico fu provvidenziale, la giornata che era partita male continuò in bellezza. Dopo il caffè andammo in chiesa e dimenticai per un po’ quel che era successo, sebbene in sottofondo suonasse un motivo d’inquietudine. Con Leo andavamo in chiesa solo in particolari occasioni. Funerali, matrimoni e cazzeggio. Eravamo lì per l’ultima opzione. Ci portammo dietro una scorta di monetine da un centesimo (il cui peso si aggirava intorno ai dodici chili, grammo più grammo meno), accuratamente conservate durante le settimane precedenti. Durante la fase dell’Offertorio ci avvicinammo ai due addetti alla raccolta (uno per ala, come vuole la sacra tradizione) e con nonchalance ognuno tirò fuori il proprio sacchettino riversandone l’intero contenuto nella sacca color porpora. Contemporaneamente si videro piegarsi miseramente le braccia dei due malcapitati e si univa agli accordi della chitarra un allegro tintinnio di monetine subito seguite dalle voci di stupore e/o sdegno degli astanti. A quel punto, nell’imbarazzo generale la gente cominciava a raccogliere monetine e spesso la vista non aiutava i vecchietti lì riuniti; io e Leo consumavamo le corde vocali in scuse e costernati atti di autocensura. Alla fine della messa, aspettammo il prete davanti la porta della canonica; ci guardò con aria inviperita e con passi pesanti ma veloci ci raggiunse. “Stavolta le avete superate tutte! Passi, sostituire le lampadine votive con quelle colorate e passi pure quando avete scambiato i fogli dei i canti con i testi dei Pooh ma stavolta…” a quel punto cominciò a ridere sonoramente e ci battezzò a modo suo con una cozzata sul collo a palmo aperto. Don Giulio, al secolo Giulio Canini, era il terzo elemento; il decimale in più che permetteva di distinguere il nostro valore da un comune numero razionale. Così almeno ci piaceva definirlo, lui si unì a noi in un secondo tempo e ci conferì quella carica d’irrazionalità che con orgoglio trascendentale associammo al pi-greco, non eravamo tre persone ma tre e quattordici circa. Ogni domenica lo andavamo a trovare e quando l’ingegno ci aiutava escogitavamo anche il modo per animargli la messa. Lui dal canto suo ci avrebbe volentieri mandato all’inferno se non avesse fatto voto di carità.

A pranzo la tradizione voleva che ci riunissimo a casa mia, ero l’unico che non considerava il supermercato un luogo di perdizione e confusione, soprattutto, mentre Leo poteva mangiare da sua madre, Don, aveva fior di bizzoche che lo invitavano a pranzo per ricambiare degnamente quell’ostia con vino elargita loro, io… io vivevo solo nel mio appartamento fuori dal centro. Dovevo farmela la spesa, non c’era scelta e allora tanto valeva pensare a tutti. Mangiare solo non mi piaceva, la compagnia di me stesso mi risultava talvolta noiosa.

2: Elisa?ultima modifica: 2010-08-24T21:08:00+02:00da cat_stevens
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