4: La stanza degli orrori

Non mi stupii, strano, di trovare il bip della segreteria al mio risveglio. Era una mattina di venerdì e avevo dormito particolarmente bene. Qualcosa in me, la sensazione di conoscere pur ignorando, premetti il tasto e sapevo che voce avrei sentito.

“Ascoltami, devo rivelarti un segreto. Non mi perderò in preamboli. Nella tua casa in campagna c’è una stanza che non visiti da un po’, sotto il tetto ho trovato tanto spazio per allestire la mia collezione. Voglio che tu la veda e devo avvertirti di non chiamare la polizia, per un semplice motivo: saresti il primo indagato.” Click. Già… “click” fu l’ultimo singulto di quella chiamata così inquietante ma, strano a dirsi, dopo il pugno a quell’avanzo di fogna le mie paure avevano un sapore di sfida e non le temevo, anzi solleticavano la mia curiosità in una maniera nuova. La domenica successiva avevamo programmato una scampagnata con Don, Leo e due amiche. Quale occasione migliore per dare una sistemata al vecchio casolare di periferia contornato da poche are di terra, per lo più brulla. Del resto tempo ne avevo poco e passione meno per cui la sterpaglia era, in definitiva, il vero proprietario dei terreni come la polvere lo era delle poche stanze in cui avevo passato pezzi d’infanzia. E domenica fu.

Giornata a dir poco splendida, cielo nitido, 20 gradi Celsius per gentile concessione di Apollo e buon umore in abbondanza, conseguenza diretta dell’insolita presenza di due discendenti di Eva tra le nostre fila. Don, in verità, non era tanto entusiasta. Vedeva il suo voto di castità come la più dura delle rinunce che la sua vocazione gli aveva portato; perciò preferiva sempre evitare la possibilità di trovarsi a stretto contatto con il problema più contingente che un uomo nella sua posizione debba affrontare: la tentazione carnale. Dalla sua aveva l’aspetto non propriamente apollineo che lo facilitava nell’impresa, per quanto qualche parrocchiana , spinta piuttosto da spirito di carità che da fervore carnale, cercasse di tanto in tanto di distoglierlo dalla sua missione spirituale. La mattinata fu un vero toccasana per i nostri polmoni infetti di smog e il pranzo a sacco non smentì le nostre attese di trovare nelle nostre ospiti delle premurose e attente cuoche. Nel post pranzo l’erba favorì la digestione offrendo un letto approssimato di freschezza e fruscii, io avevo un impegno e d’improvviso udii un “click” tra i miei pensieri. Ero così abituato ai promemoria sonori che non mi stupì che la mia mente, credo sia l’ipofisi, suonasse per ricordarmi il principale motivo per cui mi trovavo lì. Chiesi a Leo di darmi una mano a cercare una vecchia foto cui tenevo tanto. Per strada gli riassunsi brevemente quel che era successo, era sconvolto. Dio mio! Avevo così tanto preso sicurezza da non ricordare il bagno di sudore che quelle rivelazioni avevano provocato poco tempo prima e il volto di Leo fu l’anamnesi rivelatrice; quel punto di contatto con una realtà esterna provocò un brivido, ebbi di nuovo paura, una fottuta paura. Cosa sapevo dell’uomo che mi aveva chiamato? Come potevo sapere cosa o chi mi aspettasse in quella stanza? La mia vita era in pericolo? E quella di Leo? Mi fermai e lo fissai negli occhi: “cosa dici di fare?”. “Non è un gioco, non sembra un gioco per niente” sospirò “eppure è vero, tu rischi grosso se li dentro c’è quel che immaginiamo possa esserci…” “Dobbiamo andare ma a questo punto, passiamo dal capanno degli attrezzi, ho un fucile che dovrebbe ancora funzionare.” In realtà il termine fucile lo utilizzai per incoraggiare Leo e soprattutto me stesso. Una carabina ad aria compressa non era l’immagine che ci si aspetta di trovare alla voce “fucile” del dizionario.

La porta era tumefatta, l’umidità l’aveva gonfiata di una muffa purulenta e il lucchetto arrugginito sembrava promettere resistenze al mio tentativo di violarlo dopo anni. Ma, c’era da aspettarselo, si aprì subito, oleato a dovere da una presenza che sembrava sempre più concreta. Tremavo, non mi capitava dall’ultima cotta adolescenziale ma il tremore stavolta era un epilettico contatto con la paura. Appena la porta fu aperta capii che era sigillata meglio di quanto ricordassi, tanto bene da aver nascosto al nostro olfatto il tanfo di morte che impregnava lo spazio al di là di essa. Un odore di sangue rappreso mi gelò completamente, non era la prima volta che lo sentivo, già al mattatoio ebbi il primo contatto con un simile olezzo ma stavolta temevo non fossero animali quelli che erano stati sgozzati. Dovevo accendere la luce ma mi accorsi di aver dimenticato dove fosse l’interruttore. La scarica di adrenalina aveva annebbiato le mie facoltà mnemoniche oltre la loro misura già esigua. Mi appoggiai al muro, stordito da quelle esalazioni ammorbanti e la mia memoria d’un tratto si accese insieme alla lampadina da 100 Watt che avevo inavvertitamente attivato, poggiandomi sull’interruttore. Lo spettacolo che si parò ai nostri occhi fu spaventoso, ebbi la sensazione di svenire.

4: La stanza degli orroriultima modifica: 2010-09-13T20:49:42+02:00da cat_stevens
Reposta per primo quest’articolo